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Patrizia Stefanelli , vice presidente e direttore artistico dell'Associazione Culturale Teatarale Mimesis, propone autori contemporanei, articoli e argomentazioni su testi di prosa, poesia e teatro. Notizie sul Premio Nazionale Mimesis di poesia e sul Concorso Internazionale di poesia "Modernità in metrica".

05 Jan

"Quando canta la civetta" di Nicola Maggiarra. Collana Mimesis diretta da Patrizia Stefanelli.

Pubblicato da Patrizia Stefanelli

Lettura di “Quando canta la civetta” di Nicola Maggiarra

 

Ascoltare le voci del dialetto che  giungono da una finestra aperta  sul passato, da un vicolo o una viuzza, non ha prezzo.  Le voci che aprono la pièce teatrale di Nicola Maggiarra, sono quelle di una coppia di sposi contadini impauriti, di prima mattina, da strani rumori. Sì, perché anche i rumori abituali sono “voci”: il trafficare di una chiave nella toppa, il cigolare di una porta o un’interlocuzione. La parola dialettale è ricca di onomatopee, ritmi in parole tronche, quasi a significare che occorre risparmiare il fiato per la fatica, e non per le chiacchiere. Ci si comprende dal non detto, dai silenzi del corpo, dalla mimica, dalle risate. Questa potrebbe essere anche la spiegazione del come siano riusciti a comunicare i sardi e gli itrani , spinti a farlo dall’amore e dall’odio.
Nicola fa suo il mondo unico dei personaggi, la loro storia che passa dal suo vissuto e assume i toni della presenza storica attraverso i suoni che si realizzano nella scrittura. 
Mi tornano alla mente gli studi universitari sul teatro dei luoghi e le tradizioni.  I paesi dell’ex terra di lavoro hanno budelli di pietra lavica, con vicoli a destra e a sinistra. I balconcini quasi si toccano e quelli con i vetri al sole rendono la luce a quelli in ombra. I bassi, locali al piano terra, sono abitazioni; un tempo erano stalle. L’asino o l’asinella, che Gigliozza nel dramma chiama Peppinella, faceva parte della famiglia, sostegno e forza lavoro, mezzo per la via della campagna.  Non c’è che dire, al mattino, la sveglia, si sentiva di sicuro. Che storia meravigliosa hanno i paesi! Una storia che nei secoli di incursioni, insediamenti, conquiste e riconquiste, ha portato alla lingua del popolo, alla parola “intima” con cui capirsi al volo, segreta ai più, la quale rischia di perdersi e che è preziosa fonte delle nostre radici. L’Italia era fatta da 50 anni  e si costruiva la galleria tra Formia e Fondi. 1000 minatori sardi vi lavoravano e di questi oltre 400 vivevano a Itri.  Oggi storici e scrittori raccontano quei fatti, supportati da documenti e ricordi. La storia si racconta sempre al presente e oggi, grazie anche ai loro interventi, siamo qui per una riconciliazione ma anche per non dimenticare.  Il borgo di Itri fu abitato fin dall'età preistorica, fece poi parte del territorio degli Aurunci e Ausoni fino al dominio della Roma Antica. E' formato da due nuclei: uno medievale adagiato sopra il colle e dominato dal castello, l'altro  sviluppatosi lungo la via Appia "Regina Viarum" fatta costruire nel 312 aC durante l'Impero Romano per collegare Roma a Capua, poi a Brindisi. La strada prese il nome dal Console Appio Claudio che ne curò la costruzione. Diverse sono le ipotesi sull'etimologia del nome Itri. La leggenda fa risalire le origini di Itri alla distruzione di Amyclae, città marina fondata dai Laconi tra il lago di Fondi ed il mare. Alle sue spalle si estendeva la palude. Gli amiclani, a causa  dell'aria pestilenziale e delle invasioni di serpenti, e alla presenza, nelle vicinanze,  dell' Idra dalle sette teste che rinascevano appena recise da Ercole ( questa presenza è raccontata anche dal mito gaetano del “serpente di S. Agostino” ),  si stabilirono nella balsamica chiostra dei monti Aurunci, dove, sui dirupi aspri di un  colle, edificarono Itri portando con loro, come nume tutelare, il serpente  e la testa del cane "amycleo" simbolo della fedeltà. La più conclamata è la versione secondo la quale l'origine del nome derivi dal vocabolo latino "iter" viaggio, poiché le prime abitazioni che sorsero in via Cavone ed in vico Casale furono adibite a luogo di sosta delle legioni e dei corrieri romani, provenienti dalla salita di S. Andrea.  Altri ricollegano il nome alla parola "Tar-It" (terra alta), infatti ancora oggi Tarìta è chiamato il nucleo abitato tra S. Maria e S. Angelo.  

Il dramma comincia con l’accento sull’esasperazione dei personaggi, donne e uomini lavoratori e contadini ( a quel tempo l’Italia era soprattutto una terra di marinai e contadini, poche erano le braccia operaie. L’intento del governo era quello di far circolare le merci più rapidamente, per questo fu realizzata un'efficiente rete di comunicazioni stradali e ferroviarie a livello nazionale (prima erano concentrate solo a Nord); esasperazione quindi,  dovuta alla paura del diverso, di chi pare venuto a rubare, lavoro e donne. Restando lontani da ovvi paragoni con l’oggi, a tutti conosciuti, restiamo ai fatti del dramma di Nicola Maggiarra.

 I Personaggi lamentano l’assenza delle autorità di controllo, così come davvero fu nell’eccidio reale del 1911, in cui la situazione non fu valutata di dovere. L’unico vero collante, capace di tradurre parole sconosciute in emozioni positive, sembra essere l’amore. E’ l’amore e il coraggio di chi come Ornella, madre di tre figli e vedova,  e come Lucia, ancora ragazza, sa guardare oltre il pregiudizio cercando la via della vita e non della morte. Due opposti: La vedova tacciata di poco di buono e la ragazza ritenuta ingenua e innocente. Cosa le distingue in un giudizio così distante? Il fatto che la prima avesse con Luca il sardo rapporti intimi e l’altra no.  Ma l’amore è sempre innocente e le protagoniste lo dimostreranno nel finale della pièce, unite nel dolore a dispetto di ogni paura. L’autore fa morire ucciso Luca, spesso ubriaco e spaccone, amante di Ornella, che avrebbe usato violenza sulla giovane  Mafalda. L’autore tiene questa faccenda sospesa tra tanti interrogativi. Si salva Antoneddu, innamorato della dolce Lucia, lei che  incapace di ribellarsi a una madre  violenta ( userà la roncola per uccidere i sardi) , aiutata da un padre , Mastro Rubino il bastaio, che, per quieto vivere appare succube della moglie. Rubino è il grillo parlante  della storia, è filosofo-formatore, alter ego e amico delle possibilità . Ma deve ammettere che anche di fronte all’evidenza è difficile far cambiare idea alle persone. Manca, in quella situazione, probabilmente,  un’adeguata formazione che può ridurre gli eccessi di carattere, così come sviluppare le tendenze positive, indirizzare gli interessi di ognuno. Manca, ricordiamo, il diritto di voto per tutti e l’istruzione , ancora lontana da venire. Ma da pochi anni il sindaco veniva eletto direttamente dal popolo.  La popolazione dunque, è stata lasciata sola a contatto diretto di chi era il lupo, l’animale feroce, già demonizzato dalle istituzioni. I personaggi del dramma riprendono dal vissuto i loro tratti, reduci dalla delusione di un’unità ancora da realizzare. E’ curioso l’accento di Maggiarra sulla caratteristica del garzone di bottega che ha sempre in bocca un pezzo di pane. La cosa  messa in risalto da Mastro Rubino che di sicuro non ha dimenticato la tassa sul macinato di 35 anni prima.  Infatti egli, quando Gigliozza gli reca in dono lo scasato dice: “Ci ammollo un tozzo di pane duro dentro, e mi ci delizio.” Lo sciopero dei sardi per il salario lo trova d’accordo, anzi auspica anche l’intervento degli itrani mentre il prefetto tace e questi cercano di istituire la Lega del V lotto.  I contadini del dramma mal sopportano l’occupazione del ponte di san Rocco poiché non possono raggiungere la campagna. N’n ponne ì  fore a fatiè, e questo li irrita fortemente.  

Il dramma si concluderà in tragedia al suono dei dieci rintocchi della campana grande, con Ornella, in cerca del suo amore  Luca Ciannu, che chiede: “Perché suona la campana?” Il titolo è ricavato da un famoso sermone di John Donne  Nessun uomo è un'isola (meditazione XVII) citato da Ernest Hemingway in epigrafe a Per chi suona la campana,; in relazione al concetto secondo cui nessun uomo è un'isola e cioè non può considerarsi indipendente dal resto dell'umanità, egli disse:

«...And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee.»

(«E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.»)

Da notare che, in inglese, il verbo to toll indica appunto il rintocco lento delle campane, usato soprattutto nelle cerimonie funebri.

                                             

Patrizia Stefanelli


 

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